Autore:Enrico Ponta
Biologo Nutrizionista Evidence-based sport nutrition
Molto spesso parlando di nutrizione sportiva nelle gare
di endurance ci si focalizza sull’alimentazione nella finestra di tempo prima e
durante la performance, in una prospettiva di adeguato rifornimento energetico.
Se questo può forse essere sufficiente nella corsa su
medie distanze, non colpisce il centro della problematica quando invece si
tratta di maratone ed ultramaratone. In questa dimensione, un organo su tutti è
alla base di un equilibrio delicato, sia biochimico che nervoso: l’intestino.
La funzionalità dell’intestino non dipende solo dalla
velocità di assorbimento dei nutrienti, poiché esso rappresenta un organo
cruciale sotto numerosi aspetti, tra cui quello della modulazione dello stato
infiammatorio. La permeabilità della barriera intestinale in condizioni di
salute è estremamente rigida nel determinare il passaggio di sostanze dal
canale intestinale al sangue.
Uno sforzo prolungato per ore o giorni consecutivi, come
nel caso di una gara a tappe, si traduce in un “invecchiamento temporaneo”
della barriera intestinale, le cui maglie perdono la loro capacità di filtro
dei nutrienti. Il risultato è un maggiore passaggio di allergeni e tossine nel
torrente circolatorio, con conseguente aumento dello stato infiammatorio
durante la gara e nei giorni successivi.
Proprio come succede a un setaccio vecchio e liso, allo
stesso modo un intestino infiammato a causa di uno sforzo acuto non riesce più
a distinguere tra sostanze desiderate e nocive, assorbendo entrambe le
tipologie in maniera indiscriminata.
Lo stress ossidativo a carico dell’organismo a questo
punto sale a picco e il danno non è più rimediabile perché la somministrazione
di antiossidanti risolve solo una piccola parte della catena di eventi dannosi
innescati.
La ricerca si sta indirizzando verso strategie che
limitino a monte l’aumento di permeabilità della barriera e quindi lo stress
conseguente (raffreddamento pre-gara del corpo, iper-idratazione,
ottimizzazione del periodo di acclimatamento, training), anche per evitare che
la ripetizione nel tempo di danni acuti per la partecipazione a più
ultramaratone non sfoci nella condizione cronica nota come Leaky Gut Syndrome,
letteralmente sindrome dell’intestino colabrodo.
Affrontare un’ultra in una situazione in cui la
microflora intestinale non è in equilibrio o è anche solo parzialmente
compromessa, rischia di sfociare in un danno acuto ancora più grave a carico
della barriera intestinale. Le tecnologie oggi a disposizione ci permettono di
analizzare lo stato della microflora, valutando l’equilibrio delle specie
batteriche presenti (http://mymicrobiota.it/).
Nei mesi che precedono un’ultramaratona e nel periodo di
avvicinamento, è auspicabile integrare
con probiotici e fermenti lattici: questo non solo in una dimensione preventiva
dei meccanismi descritti precedentemente , ma anche in un’ottica di maggior
efficienza energetica degli integratori assunti durante la gara.
I sintomi gastro intestinali, aspetto comune degli sport
di endurance, caratterizzano molto di più il running rispetto ad altre
tipologie di sport. Inoltre compaiono molto più frequentemente in uno stato di
disidratazione rispetto alla normo-idratazione.
In uno studio sui partecipanti a un triathlon, il 93% ha
riportato problemi alla parte superiore del tratto digerente (nausea, vomito,
eruttazione, gonfiore), mentre il 60% dei partecipanti di una 100 miglia ha
dichiarato problemi sia al tratto superiore (nausea in primis) sia inferiore (crampi e diarrea).
Nelle gare a tappe l’insorgenza dei problemi
gastrointestinali statisticamente colpisce gli atleti soprattutto nei primi 1-2
giorni, in una sorta di processo di adattamento dell’organismo alle difficoltà
della gara. Alimentazione e idratazione vanno in questi termini di pari passo,
poiché una disidratazione parziale predispone all’insorgenza di nausea e
vomito, e pregiudica la capacità di assumere gel e integratori.
E’ quindi opportuno integrare acqua, sali e carboidrati
in maniera estremamente frequente e regolare, cercando di non superare un
quantitativo di carboidrati superiore ai 60g ogni ora di gara (che corrisponde
al limite di assorbimento medio del nostro intestino); dosi superiori a questa
soglia possono facilitare l’insorgenza di sintomi gastrointestinali.
L’iponatremia da attività fisica è la condizione in cui i
livelli di sodio nel sangue sono inferiori a 3,1 g/L durante la competizione o
nelle 24h successive. Sintomi iniziali molto generici, come nausea, vomito e
mal di testa, sono riscontrati in oltre un quinto degli atleti ultra americani.
Il peggioramento della condizione acuta, abbastanza raro, può sfociare in danni
gravi al sistema nervoso centrale ed essere causa di coma o morte per edema
cerebrale.
Seppur trascurata, è la causa a cui è stata ricondotta la
morte di 6 atleti negli ultimi anni tra USA e Gran Bretagna.
L’eccessiva diluizione del sodio (componente del comune
sale da cucina) nel sangue durante uno sforzo fisico prolungato rappresenta una
minaccia per chi utilizza semplice acqua per la reidratazione.
Infatti durante un’ultramaratona le perdite non
riguardano esclusivamente liquidi ma anche una massiccia componente salina, che
va reintegrata progressivamente. La diluizione dei fluidi corporei non
compensata può infatti ripercuotersi sulla funzionalità del sistema nervoso
centrale e originare l’iponatremia.
Assolutamente sconsigliate, non solo in questi casi ma in
tutto il periodo di allenamento dell’atleta, sono le acque iposodiche e
ipomineralizzate. Il trattamento dell’iponatremia acuta è rappresentato
dall’assunzione di soluzioni ipertoniche, spesso in grado di risolvere i
sintomi di confusione mentale e nausea nel giro di 30 minuti. Nei casi più
gravi la somministrazione avviene attraverso infusione endovenosa di soluzione
isotonica.
( articolo tratto da trailrunning.it)
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